Quante volte si può morire?

Articolo pubblicato nell'inserto Chiamami Cittadino n.608/2009 del giornale Chiamami Città

Un detto francese recita “partire è un po’ morire” e mi chiedo allora quante volte debba morire, in senso figurato, uno straniero che lascia dietro le spalle il paese dove è nato con la speranza di trovare una strada migliore altrove nell’ignoto?
Lui, un operaio che lascia in patria moglie e bambini perché i soldi non bastano, lei una badante che deve allevare da sola 5 bambini, lui un bracciante che si ricorda molto bene la guerra dalla quale è scappato, lei è infermiera in un grande ospedale, lui fa il muratore e adesso spera di poter tirare su le mura della propria casa, lei cuce scarpe in un’azienda, lui sta per laurearsi, lei fa la segretaria. Sono stranieri, venuti in Italia con la speranza di un futuro migliore di quello che si prospettava nei loro paesi di origine, perché l’Italia è un paese
civile, accogliente, dove c’è bisogno di lavoratori soprattutto in ambiti dove gli italiani non si vogliono più impegnare. Grazie a loro tanti bambini e anziani hanno trovato conforto, grazie a loro tante industrie sono riuscite ad andare avanti e l’agricoltura ha trovato forti braccia. Si sono integrati benissimo malgrado le diffidenze reciproche iniziali, alcuni sono riusciti a portare in questa nuova patria le loro famiglie. Hanno inviato i loro figli a scuola, figli che adesso si sentono italiani e sono fieri quando lo dicono. In questo modo sono riusciti a colmare il vuoto che aveva lasciato dentro di loro l’abbandono delle proprie
terre. Sembrerebbe un quadro idilliaco, però purtroppo non è così. Oggigiorno il brutto fantasma della crisi economica rovina il mio quadro. Tanti di loro hanno perso il lavoro e rischiano il permesso di soggiorno, molte famiglie hanno già fatto le valige per tornare nei paesi di origine anche se i loro figli parlano
adesso solo l’italiano e conoscono un stile di vita diverso da quello che li aspetta nel paese dei loro genitori. Essere sradicati è proprio il loro destino. Mi chiedo se l’Italia non sia in debito con i suoi immigrati e se non dovrebbe offrire loro almeno il tempo per cercare un altro lavoro o per ricrearsi un lavoro. In un
momento difficile per tutti mi aspettavo più solidarietà e più cooperazione. Sono profondamente dispiaciuta a sapere che lontano c’è un piccoletto che ha lasciato in Italia i compagni di scuola, che sa solo qualche parola della lingua di suo padre e non capisce bene cosa gli stia succedendo. E se partire è morire,
farlo quando si ha solo 8 anni è ancora più terribile.

Nessun commento: